Voglio provocare…. Facciamo Politica!

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Marcella Mauthe
Voglio provocare. E allora dico che le competenze, quando si tratta di fare politica, sono accessorie. Non sono la prima cosa da richiedere. Vi dico anche che tutto è finito da quando le competenze, le abilità, le capacità tecniche sono divenute il punto primo del curriculum (altra cosa avulsa dalla politica), a discapito di altre intelligenze generali o specifiche. Da qui, da questa strana convinzione diffusa, è scattato il mito della società civile. Il mito del bravo ingegnere o dell’ottimo medico cui affidare il compito di trasformare qualcosa (la città, ma anche lo Stato). Come se la ‘trasformazione’ fosse una cosa tecnica, frutto di una normale abilità, e non invece l’esito di un progetto ampio e condiviso. Lo specialista, lasciato a sé, è impotente, al più risponde ai comandi di chi ce lo ha messo. Non ha una intelligenza politica, non gli bastano le competenze per cavarsela all’interno di un mondo (la società, lo Stato) davvero complesso, stratificato, da valutare con intelligenza, da tagliare e selezionare in blocchi di interesse, da montare e smontare a seconda del percorso prescelto. Uno specialista senza politica, senza l’ausilio, il compito di regia offerto dalla politica, e in special modo del partito (dei partiti, del sistema dei partiti) è muto, disarmato, del tutto incapace di farsi classe dirigente. Presto soccomberà, oppure come dicevamo si occuperà solo di rispondere a modo al proprio committente.
La politica e il partito sono gli enzimi attraverso cui i saperi cessano di essere specialismi ciechi dal punto di vista pubblico e si trasformano in una leva di trasformazione. La politica è l’intelligenza generale di una classe dirigente altrimenti acefala. La politica fornisce gli ‘indirizzi’, sceglie, mette in campo un disegno, prefigura un futuro, incanala le forze in campo in direzione di quel futuro. Senza questa cornice il quadro è solo un ammasso di colore, destinato a non essere di gusto a nulla. Più della politica, è poi il partito a presentare un progetto, a rappresentare uno spezzone vivo di società, a chiamare a raccolta i saperi, a spingerli a trasformare la realtà sulla base di valori, principi, ideali, progetti e programmi nero su bianco. È il partito che mette collettivamente in campo l’ideologia, che prefigura scenari, che indica i binari. Solo così lo ‘specialista’ diventa politico a sua volta, ossia intravede il progetto capace di sanare ingiustizie e affermare principi, al quale aderisce e senza il quale il lavoro dei ‘competenti’ e della classe dirigente diventa vuoto, persino inutile, comunque inefficace. In assenza di partiti così intesi (non sciocchi contenitori elettorali di tutto e di niente) si gira a vuoto, non si trova l’uscita, come la mosca nella bottiglia. La politica (e dunque il partito che è comunità, che è intellettuale collettivo, che studia e lavora per sanare le ingiustizie e mostrare la strada di una coerente, realistica, possibile trasformazione) è la precondizione di ogni progetto di effettivo mutamento sociale. Senza, è solo retorica del ‘cambiamento’, solo ribaltamento dei ribaltamenti, eterno ritorno dell’eguale, flatus vocis. Gattopardismo. Con la morte della politica finisce tutto questo. La trasformazione si riduce a ‘cambiamento’, spesso solo mediatico, quello di cui anche i conservatori (anzi SOLO i conservatori) parlano a profusione, secondo le regole del marketing elettorale e nient’altro. Se non si riparte dalla politica, l’attuale scenario di crisi è destinato a restare tale, anzi a peggiorare.


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